
27 Settembre 2007
Tina, Belinda e i piaceri «colpevoli» degli anni '70
Aumont e Lee, Sankara, Baratier. Il festival di Trieste rilancia senza nostalgie la vitalità di un immaginario antifondamentalista, all'epoca seviziato, oggi ispirazione per un disordine concettuale necessario
Roberto Silvestri
Trieste
Due attrici «italiene», nel senso di aliene e di jene, Belinda Lee (ritratta con un agnellino smarrito, nello stupefacente poster ufficiale, anticipazione del Silenzio degli innocenti) e Tina Aumont, la cui improvvisa morte ha soffuso di dolore speciale un anno cinematograficamente già devastante, sono il simbolo vitale, doppio e dissonante di Milleocchi, (22-29 settembre, Teatro Miela). Che torna in questi giorni, piuttosto concentrato tra dibattiti e proiezioni, alla vitalità del sessantotto, e ai suoi «mostri» (Alberto Grifi, Vittorio De Seta, Paulo Rocha, Werner Schroeter & Maria Callas, Giulio Questi, Jacques Baratier, Otto Muehl & Dusan Makavejev, la gang di Zanzibar con Pierre Clementi e la vergine postraffaellita Bulle Ogier, i martiri combattenti africani, da Lumumba a Cabral a Sankara...) senza intenti nostalgici, ma per sganciare alcune bombe atomiche di deterrenza spirituale antifondamentalista. E per mettere, oggi come allora, e senza sbagliare dosi, caos immaginario nell'ordine del visivo, per indicarci dove è l'origine (Rien voilà l'ordre, di Baratier che si può tradurre : «Niente, ecco l'ordine», è forse il miglior film sul fascismo concentrazionario del manicomio) del «bel disordine» concettuale necessario.
Lo si potrebbe sintetizzare, lo spirito di Milleocchi, dati i tempi, con quella massima di Thomas Sankara che spiega la modernità del suo dadaismo emme-elle, indigesta a Cofferati, più di mille saggi: «I rivoluzionari vogliono abolire le carceri mentre i reazionari vogliono moltiplicarle». Pare infatti che non ci sia più consentito volare nelle praterie della libertà, seguendo il sorriso contagiante dell'artista e prostituta francese genettiana Griselidis Real, tutto istinto e ragione (Prostitution, di Jean Fancois Davy, 1975, da far girare nei licei), che Carla Corso e Pia Covre, militanti del progetto Stella Polare, hanno ricordate commosse, quando fu inebriata, a un tratto e per anni, dalle danze e dalla scienza rom del mondo.
Tina e Belinda sono infatti impronte digitali indelebili - e speriamo contraffatte - di un grande cinema italiano antagonista anni 70 possibile. Non solo scomparso e sconosciuto dai giovani cineasti e appassionati (chi ha visto L'Urlo di Tinto Brass per sei anni censurato?) ma mai realizzato compiutamente, perché perseguitato, mandato in esilio, seviziato, cancellato... Era un cinema energetico, contagioso, troppo bello per essere tollerato. Pura offerta di piaceri colpevoli, per uomini donne e chissà cosa altro.
Brass, dopo l'espulsione di Tina dall'Italia (per essersi spedita, citando Cocteau, un batuffolo d'oppio all'indirizzo di casa), cinematograficamente impazzì...
Tina fu la scoperta cinematografica di Robert Aldrich, via l'amico esule Joseph Losey e il Modesty Blaise britannico, poi fu l'unica a donare tutta se stessa, e anche un po' di sua aura, all'underground, allo spirito «nouvelle vague» di Bertolucci che ne ingigantì gli occhi già giganti, ai generi matriciani e ai sublimi calligrafici, fino a diventare la Maria Montez del tropicalismo-Cinecittà, l'unica donna inafferrabile del Casanova di Fellini.
«Che ambiente orribile quello, eppure era il mio, e quando il ciak batteva, uscivo dalla merda e entravo nell'eternità» ci svela, più o meno con queste parole da Isidore Isou, in un work in progress mozzafiato che raccoglie materiale prezioso, anche inedito, spezzoni di film, interviste, anche di Marzullo, elogi funebri sulla sua tomba, danze metropolitane inebrianti. E che spero diventi presto film diretto dal suo amico del cuore Ivan Galietti, e con Jackie Reynal voce recitante e angelo custode. Da Tina furono abbagliati e accecati perfino Bellocchio, Breillat e John Huston, che ne congelarono per questo i provini. Eppure. Non si può ricominciare, oggi in Italia, che da Belinda Lee e da Tina Aumont, dalla loro selvaggia, dolcissima, anomala e deviante soggettività desiderante. Carlo Di Leo, artista fattosi liquefare dall'eroina negli stessi anni 70, proprio da Belinda Lee ripartì, disegnando, attraverso un pellegrinaggio super 8 sulla sua tomba, al cimitero acattolico di Roma - film come tutti i migliori perduto - la mappa del tesoro di un immaginario a venire.
Al sesto anno anno il «festival internazionale del cinema e delle arti» congegnato nei laboratori segreti di Sergio Grmek Germani anche quest'anno ha costruito così un programma che sperimenta alchimie, invece di illustrare ideologie, insomma di combattimento effimero, non superficiale, che ha scodellato finora magie come un inedito di Dreyer, L'acqua nella campagna (11' censurati in Danimarca nel 1946 perchè Dreyer, figlio di prostituta, va tolto dall'acido amniotico teologico nel quale è stato annegato, assicura Germani), il film di Mishima, le incursioni di Baratier nella Parigi sotterraena che, da Juliette Greco a Antoine, da Boris Vian ai lettristi e ai jazzisti, inventò incanti irreversibili. Nonostante Sarkozy.